La Gomera e la leggenda de “La grotta di Iballa”

La Gomera e la leggenda de “La grotta di Iballa”

Conosciuta anche come la grotta del Conde o di Iballa, si trova nel territorio di San Sebastian de la Gomera, è una grotta preistorica che da sempre è associata alla  rivolta gomera del 1488.

Qui si svolse uno degli episodi più cruenti della conquista da parte del regno di Castiglia. La grotta fa da sfondo alla storia alla passione  di Peraza  un uomo dominato da passioni violente, sprovvisto di ogni senso morale. Sua madre gli aveva donato l’ isola  ed egli la considerava  un bene proprio di cui poter disporre a suo piacimento.  Aggravava gli isolani con pesanti tributi, non rispettava i loro usi né le loro credenze religiose e tanto meno le donne.

La maggior parte del tempo lo passava fuori dalla valle di San Sebastiàn alla ricerca di avventure amorose per soddisfare la sua insaziabile sensualità con il consenso della moglie Donna  Beatrice de Bobadilla. Il loro matrimonio era stato voluto dalla regina Isabella perché gelosa delle attenzioni che il marito, il re Don Ferdinando le rivolgeva. Così allontanata a Gomera era stata data in sposa, senza amore, a Hernàn Peraza.
Senza freni morali la passione di Peraza era ormai incontrollabile, non aveva nessuna considerazione né dell’ onore né della virtù né dell’ innocenza, la sua era una tirannia impudica e selvaggia.

La valle del Gran Rey è un prodigio della natura, coperta dall’alto di foltissima vegetazione si allarga  man mano fino ad abbracciare una spiaggia di sabbia rossiccia ed un mare cristallino. In questa valle  cacciava tutto il giorno e al tramonto si ritirava  nel suo palazzo. Fu allora che vide Iballa che andava con il vecchio padre verso Aguaehedún. Rimase sorpreso dalla bellezza di quella donna che non conosceva ma della quale aveva sentito parlare. Secondo la leggenda la ragazza era incantevole: il suo corpo ben modellato e il suo viso fresco come un mattino di primavera, sembrava una statua greca!

Conoscendo gli istinti del Conde si può ben immaginare il suo pensiero. Da quel giorno non pensò ad altro che a fare sua la donna, esponendosi ad una difficile quanto rischiosa avventura.
Il padre di Iballa, il vecchio Hupalupu era un sacerdote molto rispettato e influente e sua figlia una “mariguada” cioè una sacerdotessa che aveva consacrato la sua vita, fino al matrimonio, al culto del Dio Alcarac. Il promesso sposo si chiamava Ajeche e apparteneva ad una delle principali famiglie dell’ isola.
Il Conde non  ascoltò  le prudenti osservazioni del fedele scudiero e gli rispose:
«Tu sai che esco sempre trionfante in tutte  le mie cose,  non  mi interessa che Iballa sia una sacerdotessa o donna sacra, né che sia figlia del vecchio Hupalupo. Questa donna sarà mia perché lo voglio e tu stai zitto se non vuoi incorrere nella mia ira». Usò diversi espedienti per raggiungere il suo impudico desiderio ma  non c’ era ancora riuscito. Venne a sapere che il vecchio Hupalupo aveva un cavallo che quando si avvicinava a casa riconoscendo l’odore della sua stalla si metteva a nitrire. 
Pensò di sfruttare questa circostanza. 

Un giorno invitò il vecchio sacerdote a cena al castello e in una delle pietanze mise un potente sonnifero che lo  avrebbe fatto dormire il tempo necessario per il suo piano.
Non appena si addormentò prese il cavallo e si avviò verso la grotta di Aguahedún.
Iballa sentito  il nitrito corse fuori per salutare affettuosamente il vecchio padre ma  accortasi dell’inganno, corse in casa chiudendosi dentro.
Al Conde non rimase altro da fare che tornare indietro contenendo la sua rabbia e il suo irrinunciabile desiderio. Hupalupo,  dotato di ottima perspicacia, quando si svegliò si rese conto che qualcosa era successo specie vedendo il suo cavallo sudato. Salutò il Conde e fece ritorno a casa. 

Qui la figlia gli raccontò l’accaduto. «Figlia questo è insopportabile! Non parlo solo come padre colpito nei suoi affetti più cari ma come Sacerdote indignato per il sacrilegio contro la virtù di una  mariguada. Il nostro popolo non può continuare a soffrire tanta ignominia, tu stessa ci offrirai il sistema per castigarlo e per rivendicare i nostri diritti».
Era notte, il cielo coperto di nubi minacciose e la terra immersa nell’ oscurità. Il mare, agitato dal vento del sud, si precipitava infuriato sulle rocce e sulla spiaggia, a volte un chiarore spettrale lo illuminava in modo sinistro. Si vedevano allora le enormi rocce basaltiche che formavano i lati della valle e le cime del bosco che si rispecchiavano nelle turbolente acque dell’ oceano. Improvvisamente in mezzo alle tenebre si distinse la figura di un uomo che avanzava con passo fermo in direzione del mare. Appena arrivò sull’ampia linea di schiuma che le onde formano sulla spiaggia, si gettò nell’acqua come se fosse una cosa normale. Lottò con le onde fin  verso la baia, oggi chiamata la baia del Segreto, che in quel momento sembrava una enorme balena addormentata sull’ acqua.

Poco dopo altri due uomini ripeterono la stessa operazione. La luna, affacciata tra due nubi illuminò il viso di quei tre fantasmi. Erano il vecchio Hupalupo, Ajeche e un altro giovane. Dopo essersi salutati Hupalupu disse:« Vi ho convocati qui perché la terra è femmina e deve partorire. Il segreto che devo confidarvi è molto importante, giuratemi, sul nostro Dio che darete la vita prima di denunciarmi»
Ajeche e il suo compagno si inginocchiarono e contemporaneamente dissero:
« Giuriamo su Alcarac». Hupalupu continuò: « Dal mare non ho nulla da temere perché sa conservare bene i  segreti che gli si confidano. Avvivinatevi»!
Dpo una piccola pausa continuò: « Il nostro popolo sta soffrendo vessazioni indicibili, in maniera crudele si sta distruggendo lo spirito della nostra razza con l’ intento di annientarci, si burlano le nostre divinità, si disprezzano le nostre abitudini, ci impongono tributi impossibili e si ruba l’ onore delle nostre donne. Ieri il Conde, servendosi di un procedimento indegno, ha attentato all’ onore di mia figlia Iballa. La protezione del nostro Dio e la sua virtù l’hanno miracolosamente salvata». Ajeche lanciò un ruggito minaccioso e disse:« Malvagio, cento volte maledetto». Hupalupu continuó: « Siamo indegni successori di un nobile popolo se continuiamo a sopportare come dei servi. Ho consultato Alcarac è necessario uccidere il Conde e recuperare la nostra libertà… Questo il mio segreto, aspetto le vostre risposte».

Adeje aderì subito, il più giovane, dopo un breve silenzio disse: «E se si viene a sapere»? «Se si saprà sarà colpa tua, vigliacco», replicò il vecchio sacerdote conficcandogli un pugnale nel petto. Il colpo fu mortale e il cadavere venne gettato nel mare. 
«Questo vigliacco aveva già perso, torniamo a terra, domani sarà il gran giorno. Domani stesso il nostro popolo sarà libero»! In compagnia della vecchia serva e con in braccio un agnellino bianco col pelo ricciuto la bella Iballa uscì di casa e con molta calma si diresse al campo come se non avesse altra intenzione che rilassarsi in contemplazione della natura. La ragazza aveva intrecciato  i suoi biondi capelli, come era usanza fra le sacerdotesse,  con ghirlande di bianchissimi fiori e sul petto aveva una margherita selvatica.

Era bellissima e fortemente  tentatrice. Il bosco era immerso nella calma  del crepuscolo, sembrava quasi che fosse in silenziosa meditazione prima dell’ arrivo della notte. Regnava una profonda tranquillità si udivano solo i fischi dei pastori che da un colle all’altro, da un bosco all’altro comunicavano la posizione del  loro gregge.
Iballa, dopo una lunga passeggiata ritornò nella grotta di Aguahedún attraverso un sentiero ricoperto da ambo i lati di ginestre gialle e rose selvatiche. La vecchia serva salutò la sua padrona e si allontanò. Erano trascorsi pochi istanti quando apparve il Conde seguito da due scudieri. Era vestito secondo la moda dei grandi signori dell’epoca. A poca distanza dalla grotta congedò gli scudieri e si affrettò sul sentiero che poco prima aveva percorso la ragazza.

Gli scudieri intuirono che Iballa doveva vivere li, in quel luogo pittoresco ma solitario.
Ne conoscevano la fama, oltre ad essere molto bella era una sacerdotessa di grande onestà e rettitudine. Grande fu la sorpresa quando udirono  risuonare nella valle feroci grida ed i fischi degli isolani che prontamente li accerchiarono. Il Conde non si rese conto del pericolo, si avvicinò alla porta cercando di aprirla. Ajeche che era lì ad attenderlo gli saltò addosso con un pugnale in mano. Il Conde vacillò per un momento  quindi sguainando la spada disse:« Villano, porta rispetto al tuo signore». Ajeche senza pronunciare parola gli saltò addosso, il Conde respinse il primo assalto ma subito dopo cadde a terra con il petto trapassato dal pugnale. Un gran numero di isolani uscí allora dai nascondigli gridando:
« È morto il tiranno»! Abriòse scavalcando il cadavere si avvicinò a Hulalupo e disse: « È morto il tiranno ma non la tirannia, è necessario il nostro sangue per recuperare la libertà, preghiamo il nostro Dio che ci aiuti»!

Il sole era tramontato, i cani latravano ma in tutta l’ isola si era sparsa la notizia della morte del tiranno. Il popolo si apprestava a combattere le truppe di Doña Beatrice de Bodadilla.
Una profonda emozione invase la donna, non tanto per la tragica morte del marito, quanto per la paura della ribellione del popolo, così chiese aiuto al signore di Grancanaria.
Circondata dai suoi più fedeli servitori, si chiuse nella torre di San Sebastiàn, per resistere agli attacchi degli isolani. La sua vita dipendeva dall’ aiuto di Grancanaria. Si dice che ella passasse giorno e notte scrutando l’ orizzonte in un’ attesa disperata. Quante volte la cresta di un’ onda le sembrò la vela di una caravella amica e quante volte la sua immaginazione la portava a guardare il mare credendo che gli aiuti fissero sbarcati! 
Era ossessionata dal pericolo!

Febbricitante, con i capelli sciolti sulle spalle correva dalla letto alla finestra e da qui alla cappella dove i suoi fedeli servitori pregavano. Sicuramente ricordava,  in tale momento di pericolo, il tempo in cui viveva alla corte spagnola e le attenzioni di cui la circondava il re.
Intanto i Guances sotto la direzione di Ajeche e di Háutacuperche lottavano strenuamente contro la tirannia. Per tre volte avevano assaltato la torre e non si erano arresi grazie alla caparbietà di Donna Beatrice sebbene  turbata dall’ imminente pericolo.
Infine i tanto sperati aiuti arrivarono. Il generale Pedro de Vera, uomo di grandi doti militari, credeva che i suoi soldati si sarebbero buttati sugli isolani come falconi sulla preda. 
Fu solo un’ illusione. 

Per molte settimane gli spagnoli non riuscirono a fare un passo avanti. 
I Guances, forti per la giusta causa, combattevano con straordinario valore.  Nonostante l’ arrivo del generale, non avevano perso nessuna delle posizioni guadagnate. Fortemente contrariato de Vera escogitò un piano, degno di un criminale, considerato dagli storici come l’ episodio più vergognoso e brutale della storia della conquista. Contando sulla nobiltà del popolo guances, inviò ambasciatori  ai più importanti capi della insurrezione per concludere una pace onorevole.  Era necessario che essi scendessero a valle disarmati  e partecipassero alle esequie funebri per l’anima del Peraza. Chi  non fosse intervenuto sarebbe stato considerato complice nel crimine di Aguahedún.
Il forte senso dell’onore li perse!

Fu una carneficina spaventosa che ancora oggi provoca rabbia e dolore. Quando scesero a valle disarmati, le truppe spagnole nascoste e armate si gettarono su di loro con una ferocia inaudita, disonorando la “ cavalleria “ castigliana. In chiesa fu ancora peggio, davanti alla Sacra Immagine furono uccisi donne, bambini e anziani e tagliate mani e piedi agli innocenti e indifesi. E mentre tutto questo accadeva, la signora de Bobadilla godeva davanti a quello spettacolo. Solo pochi riuscirono a sfuggire a quell’ orribile sterminio. 

Ajeche ed altri pochi si rifugiarono sulle alture di Chigaday. De Vera inviò alcune centinaia di uomini per sterminarli senza alcuna compassione. Hupalupu chiamò a sé Iballa e Adeche e disse:« Figli miei voi non dovete morire, nella terra di fronte vivono uomini della nostra razza, vi accoglieranno con amore, con l’ aiuto di Dio riuscirete a superare le acque che ci separano. Siete forti e vigorosi, il vento soffia in vostro favore, andate con la mia benedizione».
«Moriremo con te»!
« lo comando come Sacerdote, voi vi salverete: confido nell’aiuto divino». Ajeche e Iballa dopo aver salutato il vecchio si gettarono in acqua. A sera gli ultimi difensori di Gomera,  si diedero la morte piuttosto che cadere in mano ai nemici. La tradizione non dice come  Iballa e Ajeche abbiano attraversato quel grande braccio di mare che separa Gomera da Tenerife o quali fossero  i loro timori; si sa solo che la notte era splendida, il mare era calmo e la luna brillava come un sole. La  fantasia popolare  vede la coppia di innamorati attraversare le acque   grigio argento, delicatamente guidati dalla brezza.

Iballa e Ajeche arrivarono all’alba del giorno dopo su una delle spiagge della regione Izora, situata sulla costa sud di Tenerife, dove trovarono una grotta che servì da abitazione e che oggi porta  ancora il nome “Grotta dei ribelli”. I due giovani   vennero accolti con amore dai tinerifegni  che  offrirono loro non solo i frutti dei loro alberi, il latte del loro bestiame e il grano dei loro campi, ma anche parole dolci e affettuose. Nella  terra di Nivaria si era divulgata la  terribile tragedia di Gomera, la gente accorreva  ansiosa di sentire dalle labbra dei “ribelli”  la storia della morte del Conde, della ferocia di Pedro de Vera e della  fine del vecchio Hupalupu 
Vissero molti  anni  e la leggenda racconta che  ogni sera, quando il sole tramonta tingendo di rosso le nuvole essi si inginocchiano  e  pregano con gli occhi fissi sulla terra per sempre perduta fino a quando il sole non scompaia del tutto. Sono passati sei secoli ma nessuno ha dimenticato la storia di Iballa e Ajeche, né  pare si  sia estinta la sua discendenza che sembra viva  a Guía de Isora
di Maria Pia Alfonsi (Mapi)

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